LA DISCIPLINA DEI CONFLITTI DI INTERESSE IN ITALIA DELLE FORME PENSIONISTICHE COMPLEMENTARI TRA VECCHIE E NUOVE NORME
THE CONFLICT-OF-INTEREST IN ITALY OF COMPLEMENTARY PENSION SCHEMES BETWEEN OLD AND NEW RULES
RESUMO
L’Autore esamina l’attuale disciplina, introdotta in Italia, dei conflitti di interesse e delle incompatibilità cui soggiacciono le forme pensionistiche complementari ove si riscontri un interesse, di cui sia portatore un intermediario/gestore, potenzialmente confliggente con quello dell’investitore/fondo pensione. Attraverso l’analisi delle norme che si sono succedute sulla complessa materia, l’Autore si sofferma sul sistema dei controlli in grado di assicurare un elevato grado di protezione e di tutela dell’iscritto e sulle possibili responsabilità degli organi sociali del fondo pensione in caso di violazione delle norme previste.
PALAVRAS CHAVE: fondi pensioni, conflitti di interesse, gestione, protezione
ABSTRACT
The author examines the current legislative framework, introduced in Italy, conflicts of interest and incompatibilities which underlie the complementary pension schemes where there is an interest, which is carrying a broker/manager, potentially conflicting with that of the investor/retirement fund. Through analysis of the rules that have occurred on this complex matter, the author focuses on the system of controls that ensure a high degree of protection and the protection of the user and the possible responsibility of the governing bodies of the pension fund in the event of a breach of the rules.
KEYWORDS: pension funds, conflicts of interest, management, protection
Sommario: 1. Premessa. – 2. La gestione dei conflitti di interesse nella lex specialis italiana. – 2.1. Le varianti alla politica di gestione dei conflitti di interesse. – 3. L’evoluzione della disciplina sui conflitti di interesse: il ricorso alla Markets in Financial Instruments Directive anche per la previdenza complementare. – 4. La politica dei conflitti di interesse secondo il recente decreto ministeriale 2 settembre 2014, n. 166. – 5. Il nuovo regime delle incompatibilità cui soggiacciono le forme pensionistiche complementari.
1. Premessa.
Un tema che si presenta in Italia di particolare rilevanza, a causa degli effetti in grado di causare sulle forme pensionistiche complementari, e quindi sulla previdenza cosiddetta di “secondo pilastro”, è la disciplina dei conflitti di interesse e, più in generale, del sistema dei controlli in grado di assicurare un elevato grado di protezione e di tutela dell’iscritto al fondo pensione. In quanto soggetti ed enti di diritto privato, come già rilevato in altra sede (v. Tursi 2017), le forme pensionistiche complementari intrattengono, infatti, rapporti con diversi soggetti, che possono generare l’insorgere di conflitti nel momento della prestazione di servizi finanziari, assicurativi, accessori. In dottrina (De Mari-Spada 2005) si definisce conflitto di interesse «la situazione per la quale l’intermediario sia portatore di un interesse, potenzialmente confliggente con quello dell’investitore, ulteriore rispetto a quello tipicamente insito nel sinallagma del rapporto contrattuale che lo vincola al cliente». Più semplicemente, non derivando dalla mera contrapposizione di interessi perseguiti tipicamente dai contraenti di un negozio giuridico a prestazioni corrispettive, il conflitto di interesse si verifica ogni qualvolta un soggetto, a cui compete una decisione rilevante ai fini della gestione del fondo pensione, si trovi condizionato da altri interessi, diversi da quelli del soggetto che è chiamato a decidere.
Da qui la questione di stabilire un’efficace politica di gestione di tali conflitti, anche in considerazione delle dimensioni e dell’organizzazione della forma pensionistica complementare, nonché della natura, dimensioni e complessità della sua attività previdenziale. Si pensi alla prestazione del servizio di consulenza in materia di investimenti in relazione a strumenti finanziari – compresi quelli emessi da imprese di assicurazione – collocati e distribuiti dal gestore finanziario sulla base della convenzione sottoscritta con la forma pensionistica complementare (art. 6, decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252), che può generare un conflitto di interessi ove il gestore sia incentivato a consigliare un prodotto,o un servizio di investimento, in funzione dell’appartenenza al medesimo gruppo dell’emittente/gestore, o in funzione delle commissioni o delle retrocessioni di commissioni percepite per l’attività di collocamento/distribuzione, e non in base al rendimento atteso per il fondo pensione (Squeglia 2011).
Analogamente potrebbe dirsi nel caso del collocamento di strumenti finanziari emessi da società con cui il gestore finanziario (o assicurativo) intrattiene rapporti creditizi o partecipativi, o alle quali il medesimo gestore presta servizi di finanza aziendale: esso potrebbe essere indotto a collocare uno strumento in funzione della riduzione del proprio rischio finanziario o, più in generale, per mantenere la relazione con la società cliente,anziché in base al rendimento atteso per l’investitore/fondo pensione. Senza trascurare il caso in cui i componenti degli organi di amministrazione della forma pensionistica complementare rivestano cariche sociali in società finanziarie o in compagnie di assicurazione, venendosi così a trovare, a diverso titolo, sui due lati della stessa operazione (ad es. consulente del compratore/fondo pensione e azionista del venditore).
Al fine di impedire l’insorgere di tali conflitti, il comma 5-bis dell’art. 6, decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, aggiunto dall’art. 1, decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 28, stabilisce che, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sentita la Commissione di vigilanza, sono individuate le regole da osservare in materia di conflitti di interesse, tenendo conto delle specificità dei fondi pensione e dei principi di cui alla direttiva del 21 aprile 2004 n. 2004/39/CE, alla normativa comunitaria di esecuzione e a quella nazionale di recepimento. Una conferma di un sistema, quello italiano, fortemente regolato, che stabilisce i confini dell’azione del fondo e di tutti i soggetti direttamente coinvolti al fine di impedire operazioni che possano tradursi in danni non individuabili se non a posteriori, e per questa ragione insanabili. Compito delle pagine che seguono è dunque quello di tracciare la politica di gestione in Italia dei conflitti di interesse delle forme pensionistiche complementari.
2. La gestione dei conflitti di interesse nella lex specialis italiana.
Ab origine la disciplina di riferimento era contenuta in due diverse norme del decreto ministeriale 21 novembre 1996, n. 703: l’art. 7,che considerava “rilevanti” i conflitti di interesse relativi ad investimenti nell’ambito dei rapporti di gruppo; e l’art. 8, che riferiva dell’obbligo di trasparenza.
Ad essi si aggiungeva l’art. 23,decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, che si interessava dell’individuazione del rapporto definito “di controllo”.
Tuttavia, nessuno di questi provvedimenti offriva una nozione di conflitto di interesse.
Da una lettura combinata si desumeva che la tutela degli aderenti ai fondi di previdenza complementare trovava la sua attuazione attraverso l’assolvimento di obblighi di informazione e di trasparenza, per effetto di una procedura di comunicazione che consentiva a tali soggetti di valutarne la natura e le relative criticità.
In specie, si verificava un conflitto di interesse quando i gestori effettuavano, per conto del fondo di previdenza complementare, operazioni nelle quali avevano «direttamente o indirettamente» un interesse, anche in relazione ai rapporti di gruppo. In questi casi, essi erano tenuti ad indicare specificamente, nella documentazione da trasmettere al fondo pensione, le operazioni medesime nonché la natura degli interessi in conflitto. Tale obbligo sussisteva anche nell’ipotesi di investimento in titoli emessi dai sottoscrittori delle fonti istitutive, dai datori di lavoro tenuti alla contribuzione, dalla banca depositaria o da rapporti di gruppo.
Queste informazioni e quelle relative alla composizione del proprio gruppo societario dovevano essere rese dai predetti soggetti al gestore. Il legale rappresentante del fondo pensione e, nel caso di fondi aperti, il responsabile del fondo informati delle fattispecie di conflitto di interesse, erano tenuti a darne notizia alla Commissione di Vigilanza sui fondi pensione (c.d. COVIP). A sua volta, la predetta Autorità di Vigilanza poteva esigere, nei casi più rilevanti, una comunicazione da opporre agli aderenti. L’art. 8 del decreto ministeriale 21 novembre 1996, n. 703 si occupava di filtrare i soggetti attraverso la separazione dei ruoli e delle competenze, nonché dell’attività svolta. In particolare, il gestore, la banca depositaria, coloro che sottoscrivevano le fonti istitutive e i datori di lavoro tenuti alla contribuzione dovevano informare il fondo pensione nel caso: a) di sussistenza di rapporti di controllo, tra il gestore e la banca depositaria, che avrebbero potuto determinare un indebolimento del ruolo devoluto a quest’ultima; b) di controllo del gestore da parte dei soggetti che avevano sottoscritto le fonti istitutive; c) di gestione delle risorse del fondo funzionale ad interessi dei soggetti sottoscrittori delle fonti istitutive, dei datori di lavoro tenuti alla contribuzione, del gestore, o di imprese dei loro gruppi; d) di ogni altra situazione soggettiva o relazione d’affari, riguardante il fondo pensione, il gestore, la banca depositaria, i sottoscrittori delle fonti istitutive e i datori di lavoro tenuti alla contribuzione, che potesse influenzare la corretta gestione del fondo. In questi casi, il soggetto che si trovava in conflitto di interesse doveva darne comunicazione al fondo pensione. Il legale rappresentante del fondo e, nel caso di fondi pensione aperti, il responsabile del fondo avevano il compito di informare l’Autorità di Vigilanza dell’esistenza di fattispecie di conflitto d’interesse, comunicando l’insussistenza di condizioni che potessero determinare: a) possibili distorsioni nella gestione efficiente delle risorse del fondo; b) una gestione delle risorse del fondo non conforme all’esclusivo interesse degli iscritti, beneficiari delle prestazioni previdenziali.
Ulteriore tutela prevista dalla legislazione secondaria atteneva alla circostanza che le funzioni di componente di organo di amministrazione, di direzione e di controllo del gestore fossero incompatibili con quelle di amministrazione, direzione e controllo del fondo pensione e dei soggetti sottoscrittori dei medesimi. Erano anche incompatibili le funzioni di componente di organo di amministrazione, di direzione e di controllo del fondo pensione con le funzioni di direzione dei soggetti sottoscrittori.
L’autorità di vigilanza, ove avesse ritenuto rilevante la fattispecie di conflitto d’interesse, avrebbe potuto richiedere che il fondo pensione informasse gli aderenti, stabilendo le modalità e il contenuto della comunicazione; ove il gestore fosse stato controllato da uno dei soggetti sottoscrittori delle fonti istitutive, il fondo ne avrebbe dato comunicazione a ciascun aderente; il soggetto gestore sarebbe stato tenuto a presentare al fondo pensione la rendicontazione delle operazioni effettuate con cadenza almeno quindicinale; il legale rappresentante del fondo e, nel caso di fondi pensione aperti, il responsabile del fondo avrebbero trasmesso all’Autorità di Vigilanza una relazione con cadenza almeno semestrale sull’andamento e sui risultati della gestione.
L’inadempimento degli obblighi di informazione da parte degli organi collegiali (o del responsabile del fondo pensione) causava precise responsabilità che l’art. 5, commi 7 e 8, decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 assimilava a quelle degli amministratori (ex artt. 2392-2396, codice civile) e dei sindaci (ex art. 2407, codice civile) delle società per azioni. Anche la mancata attivazione su specifica richiesta dell’Autorità di Vigilanza determinava l’applicazione di sanzioni amministrative o, nei casi più gravi, la decadenza dell’incarico – decadenza peraltro prevista anche nel caso di inadempimento degli obblighi sanciti dal decreto ministeriale n.703/1996 – ai sensi dell’art. 19, commi 2 e 3, decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252. Si aggiunga, infine, che l’art. 31, decreto legislativo 28 dicembre 2005, n. 262,inserendo il nuovo art. 2629-bis., codice civile, in materia di intermediazione finanziaria e assicurativa in generale, aveva nel frattempo introdotto il reato di omessa comunicazione del conflitto di interessi (con la previsione della reclusione da uno a tre anni, se dalla violazione fossero derivati danni alla società o a terzi) a carico di un soggetto sottoposto a vigilanza ai sensi del decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124 (e, dunque, dell’amministratore del fondo pensione) nel caso di mancato adempimento degli obblighi sanciti dall’art. 2391, comma 1, codice civile.
2.1. Le varianti alla politica di gestione dei conflitti di intesse.
Esistevano poi tecniche nelle quali il quadro normativo generale si arricchiva con quello di dettaglio definito dallo statuto della forma pensionistica complementare che poteva recare integrazioni alla disciplina delle fattispecie del conflitto di interesse.
Un esempio era da rinvenire nella predisposizione del codice etico ad opera del fondo pensione complementare per i lavoratori dipendenti dai datori di lavoro operanti nel Trentino Alto Adige (denominato “Laborfonds”) – entrato in vigore in data 10 settembre 2008 e che era vincolante in ogni sua parte per collaboratori, amministratori, consulenti e fornitori di servizi – nel quale si identificavano ulteriori fattispecie di conflitti di interesse nei casi in cui: a) si perseguisse un interesse in antitesi alla missione del fondo pensione; b) uno dei destinatari perseguisse un interesse conforme alla missione di Laborfonds, ma dal quale potesse trarre un beneficio patrimoniale o ideale per se stesso o per terzi; c) uno dei soggetti versasse in una situazione di conflitto fra il proprio personale interesse e quello del fondo pensione; d) i rappresentanti dei gestori, delle società convenzionate in outsourcing o delle istituzioni pubbliche agissero in contrasto con i doveri fiduciari legati alla loro posizione, nell’intrattenere rapporti con il fondo pensione. Ove si fosse determinatala situazione di conflitto, era fatto obbligo di darne comunicazione al comitato di controllo interno del fondo pensione e al consiglio di amministrazione allo scopo di adottare i provvedimenti ritenuti idonei.
3. L’evoluzione della disciplina sui conflitti di interesse: il ricorso alla Markets in Financial Instruments Directive anche per la previdenza complementare
A fronte di questa disciplina generale, già a partire dai primi anni Duemila forte era stata la discussione in Italia se una tecnica più efficace a prevenire i conflitti di interesse non fosse da ricondurre ai principi contenuti nella direttiva dell’Unione Europea n. 2004/39/CE del 21 aprile 2004 (MiFID: Markets in Financial Instruments Directive), che pareva responsabilizzare l’intermediario nell’identificazione e nella valutazione dell’esistenza di un conflitto (sul punto, cfr. Recine 2006, 303 ss.). Era dunque il principio di responsabilità, tanto del risparmiatore quanto degli operatori finanziari (banche, sim, società di gestione del risparmio, promotori finanziari, analisti), a rappresentare il punto qualificante della direttiva comunitaria.
La disciplina comunitaria, che affonda le sue radici nella tradizione anglosassone, assegna valore dirimente all’esistenza d’efficaci misure organizzative nella struttura del gestore finanziario(v. Conti-Sabatini-Comporti 2007). Difatti, l’art. 18 della direttiva stabilisce espressamente che «Le imprese di investimento mantengono e applicano disposizioni organizzative e amministrative efficaci al fine di adottare tutte le misure ragionevoli destinate ad evitare che i conflitti di interesse, quali definiti all'articolo 18, incidano negativamente sugli interessi dei loro clienti».
In sostanza, essa ritiene che il rafforzamento del sistema organizzativo dell’intermediario sia fondamentale per garantire – oltre la propria stabilità patrimoniale anche – la correttezza e la trasparenza dei comportamenti nella prestazione dei servizi. Sotto questo profilo, l’intermediario viene responsabilizzato nel decidere se le misure adottate siano sufficienti ad assicurare, con ragionevole certezza, che sia stato evitato il rischio di ledere gli interessi degli investitori. Gli intermediari sono obbligati ad adottare ogni misura ragionevole per identificare il rischio e per gestirlo in modo tale che non incida negativamente sugli interessi dei clienti. In caso contrario, è obbligo dell’intermediario dare puntuali informazioni all’investitore.
Su come la previdenza complementare in Italia potesse beneficiare delle norme della MiFID – di cui già il comma 5-bis dell’art. 6, decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 ne prescrive l’applicazione, sia pure «tenendo conto delle specificità dei fondi pensione» – basti considerare in questa sede le previsioni contenute negli artt. 13, paragrafo 3, e 18 della direttiva (in generale, si richiama Sangiovanni 2007, 363 ss.) nonché le disposizioni attuative della stessa (cfr. artt. 23 e 37 del Regolamento Consob/Banca d’Italia, emanato ai sensi dell’art. 6, comma 2-bis, decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58).
In particolare, nell’art. 13, par. 3, della Direttiva (recepita dall’art. 21, co. 1-bis, lett. a), del decreto legislativo24 febbraio 1998, n. 58) si legge: «Le imprese di investimento mantengono e applicano disposizioni organizzative e amministrative efficaci al fine di adottare tutte le misure ragionevoli destinate ad evitare che i conflitti di interesse, quali definiti all’art. 18, incidano negativamente sugli interessi dei loro clienti». L’art. 18 (anch’esso recepito dall’art. 21, comma 1-bis, lett. a), decreto legislativo24 febbraio 1998, n. 58) aggiunge che «(…)Gli Stati membri prescrivono che le imprese di investimento adottino ogni misura ragionevole per identificare i conflitti di interesse che potrebbero insorgere tra tali imprese (…)e i loro clienti o tra clienti al momento della prestazione di qualunque servizio di investimento o servizio accessorio o di una combinazione di tali servizi». Senza trascurare le lett. b) e c) del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, ove si precisa che «le imprese (…)informano chiaramente i clienti, prima di agire per loro conto, della natura generale e dei conflitti di interesse (…); (…) svolgono una gestione prudente e sana e adottano misure idonee a salvaguardare i diritti dei clienti sui beni affidati».
Le norme, riferite alla previdenza di “secondo pilastro”, si proponevano di far adottare agli Stati membri misure organizzative tali da consentire agli operatori (della gestione del patrimonio) di agire direttamente da un lato, e di intervenire tempestivamente, in presenza di un conflitto di interesse con il fondo pensione o con gli aderenti, ove questo non fosse stato preventivamente individuato, dall’altro.
Con riguardo, poi, all’identificazione delle fattispecie rilevanti, alcuni autori (Squeglia 2012) richiamavano l’impostazione seguita dalla direttiva comunitaria e, in particolare, le norme contenute negli artt. 24 e 38 del Regolamento Consob/Banca d’Italia. Sotto questo profilo, si presentavano rinvigoriti anche gli obblighi di informazione sulla natura dei conflitti, da assolvere nei confronti del fondo pensione o degli aderenti, qualora i diversi presidi non fossero sufficienti ad assicurare che il rischio di nuocere agli interessi degli aderenti fosse scongiurato (a riguardo si prendano d’esempio gli artt. 25 e 39 del Regolamento congiunto Consob/Banca d’Italia, emanato ai sensi dell’art. 6, comma 2 bis,decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58).
In sostanza, l’idea era di introdurre in Italia «un diverso modello di gestione dei conflitti di interesse che avrebbe consentito ai fondi di previdenza complementare di operare e di relazionarsi con gestori ed operatori finanziari evoluti nella struttura organizzativa, nel controllo del rischio, nella prevenzione e nella risoluzione dei conflitti – al pari di quelli che operano, ad esempio, in Olanda, in Danimarca e nel Regno Unito – sulla base di un quadro normativo basato su regole nuove e più moderne» (Squeglia 2012).
4. La politica dei conflitti di interesse secondo il recente decreto ministeriale 2 settembre 2014, n. 166.
In attuazione dell’art. 6, comma 5-bis, decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, è stato emanato il decreto ministeriale 2 settembre 2014, n. 166 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 264 del 13.11.2014), che sostituisce il decreto ministeriale 21 novembre 1996, n. 703,e reca nuove norme sui criteri e limiti di investimento delle risorse dei fondi pensione nonché, per il tema che qui interessa, sulle regole in materia di conflitti di interesse.
Il decreto del 2014, richiamando sia la direttiva 2003/41/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 3 giugno 2003 – relativa alle attività e alla supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali – sia la già citata la direttiva 2004/39/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004 – relativa ai mercati degli strumenti finanziari –, dedica ai conflitti di interesse e all’incompatibilità tre specifici articoli.
In primo luogo, introducendo una diversa disciplina a seconda che si tratti di fondi pensione privi di soggettività giuridica, ovvero dotati di soggettività giuridica (per una differenzazione delle due figure si v. Tursi 2017), conferma il rilievo che il legislatore italiano riconosce alla configurazione soggettiva cui si dota la forma pensionistica e, in particolare, dalle implicazioni che da essa possono discendere.
In secondo luogo, considera conflitti di interesse «sia i conflitti relativi a soggetti appartenenti al fondo, sia quelli relativi a soggetti esterni al medesimo, in relazione allo svolgimento di incarichi da parte di detti soggetti per conto del fondo».
Infine, individua una serie di obblighi di informazione a carico del consiglio di amministrazione, ovvero del soggetto al quale sono attribuiti dalla legge e dallo statuto compiti di gestione operativa nonché l’elaborazione delle scelte strategiche:si tratta di obblighi di carattere generale, il cui adempimento spetta ad entrambe le due tipologie di fondi pensione, ancorché si presentino differenziate le responsabilità che scaturiscono dall’adempimento di siffatti obblighi.
Per tutte le forme pensioni complementari è ribadito, da un lato, il principio per cui «gli amministratori delle società e degli enti al cui interno sono istituiti fondi pensione, nell’adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto (o dal regolamento), perseguono l’interesse degli aderenti e dei beneficiari delle prestazioni pensionistiche»; dall’altro, è stabilito che i consigli di amministrazione dei fondi pensione formulino per iscritto, applichino e mantengano un’efficace politica di gestione dei conflitti di interesse.
Di particolare interesse è la competenza dei consigli di amministrazione dei fondi pensione ad adottare«ogni misura ragionevole per identificare e gestire i conflitti di interesse, in modo da evitare che tali conflitti incidano negativamente sugli interessi degli aderenti o dei beneficiari».Viene dunque attribuito all’organo collegiale –in composizione paritetica (v. Tursi 2017) – il compito di formulare le linee guida, o meglio di svolgere una funzione detta di compliance, per una efficace gestione dei conflitti di interesse, ricorrendo alla formazione di una volontà unilaterale costruita al suo interno con il voto a maggioranza.
Al consiglio di amministrazione non è solo assegnata una funzione di indirizzo, ma anche di verifica e di controllo, posto che tutte le circostanze che generano o potrebbero generare un conflitto di interesse, le procedure da seguire e le misure da adottare sono riportate in un apposito documento che è trasmesso tempestivamente, anche in caso di modifiche, al responsabile del fondo pensione e alla Commissione di Vigilanza sui fondi pensione (COVIP). Una documentazione che si aggiunge al documento della politica di investimento,che ormai da diversi anni è entrato stabilmente nel quadro della documentazione “ufficiale” predisposta e messa a disposizione da ciascun fondo pensione.
Peraltro, ove le misure adottate non risultino sufficienti, nel caso concreto, a escludere che il conflitto di interesse possa recare pregiudizio agli aderenti o ai beneficiari, tale circostanza è adeguatamente valutata – nell’ottica della tutela degli aderenti e dei beneficiari – dal consiglio di amministrazione, e comunicata tempestivamente alla COVIP. Il decreto prova così a rispondere all’obbligo di cui all’art. 18 della direttiva comunitaria secondo cui «quando le disposizioni organizzative o amministrative adottate (…) per gestire i conflitti di interesse non sono sufficienti per assicurare, con ragionevole certezza, che il rischio di nuocere agli interessi dei clienti sia evitato, l’impresa di investimento informa chiaramente i clienti, prima di agire per loro conto, della natura generale e/o delle fonti di tali conflitti di interesse».
Qualche obbligo specifico è richiesto dall’art. 8 del decreto ministeriale 2 settembre 2014, n. 166, laddove stabilisce espressamente per i fondi pensione privi di soggettività giuridica che «le società e gli enti adottano, nella gestione dei fondi pensione, ogni misura ragionevole per identificare e gestire i conflitti di interesse facenti capo alle predette società ovvero a soggetti esterni incaricati di svolgere attività per conto di esse, con particolare riferimento a quelli che potrebbero insorgere tra esse, o tra imprese appartenenti al loro gruppo, e il fondo pensione ovvero, nel caso di adesioni collettive a fondi pensione aperti, con i soggetti tenuti alla contribuzione, così da evitare che tali conflitti incidano negativamente sugli interessi degli aderenti o dei beneficiari».
Si diceva della differenziazione di responsabilità cui sono assoggettati i componenti degli organi di amministrazioni dei fondi pensione dotati di soggettività giuridica rispetto alle forme prive personalità giuridica privata.
In specie, l’art. 7 del medesimo decreto, richiama per gli organi di amministrazione e per i loro componenti l’applicazione dell’art. 2391, del codice civile italiano. Il richiamo all’art. 2391 , codice civile, e dunque alle società di capitali (pur trattandosi forme pensionistiche complementari che presentano invece una natura “non profit”: v. Tursi 2017), sanziona la prospettiva meramente “potenziale” del correlativo danno alla società/forma pensionistica complementare, posto che stabilisce, da un lato, l’obbligo di dare notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l’origine e la portata ovvero sesi tratti di amministratore delegato, di astenersi dal compiere l’operazione, investendo della stessa l’organo collegiale oppure nel caso di amministratore unico di darne notizia anche alla prima assemblea utile; dall’altro, ove si giunga comunque alla deliberazione del consiglio di amministrazione, di motivare adeguatamente le ragioni e la convenienza per la società dell’operazione.
Si aggiunga che secondo la giurisprudenza, il conflitto di interessi che è sanzionato in sede civile si manifesta al momento dell’esercizio del potere deliberativo (v. Cassazione Civile sezione I, 10 ottobre 2013 n. 23089) e attiene precisamente l’esercizio del potere di gestione (v. anche Cassazione Civile sezione I, 13 febbraio 2013 n. 3501).
Trattasi di un duplice obbligo di informazione, la cui inosservanza causa l’eventuale possibile impugnazione degli amministratori e del collegio sindacale entro novanta giorni, fermo restando i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione. In ogni caso, l’amministratore risponde dei danni derivati alla società dalla sua azione od omissione nonché di quelli che siano derivati alla società dalla utilizzazione a vantaggio proprio o di terzi di dati, notizie o opportunità di affari appresi nell’esercizio del suo incarico. Un risarcimento che si presenta integrale (danno emergente e lucro cessante) e non semplicemente limitato alle perdite eventualmente subite.
5. Il nuovo regime delle incompatibilità cui soggiacciono le forme pensionistiche complementari.
L’art. 9, decreto ministeriale 2 settembre 2014, n. 166 introduce in Italia una specifica previsione di incompatibilità, stabilendo che «lo svolgimento di funzioni di amministrazione, direzione e controllo nel fondo pensione è incompatibile con lo svolgimento di funzioni di amministrazione, direzione e controllo nel gestore convenzionato, nel depositario e in altre società dei gruppi cui appartengono il gestore convenzionato e il depositario». Una previsione avente lo scopo di evitare di trovarsi, a diverso titolo, sui due lati della stessa operazione (ad es. consulente/gestore del compratore e azionista del venditore).
Tuttavia, la formulazione della norma individua un perimetro soggettivo di applicazione molto ampio: in particolare, l’espressione «funzioni di amministrazione, direzione e controllo nel fondo pensione e le medesime funzioni esercitate presso il gestore, o il depositario, o le società del loro gruppo» potrebbe essere non circoscritta alle sole figure apicali delle società (direttore generale, amministratore delegato o comunque che svolgano funzioni assimilabili, oltre che ai componenti degli organi societari), riguardando anche il personale con inquadramento di dirigente o di funzionario che svolga «funzioni di carattere direttivo» nelle predette società. In passato, la Commissione di Vigilanza sui fondi pensione (cfr. Orientamenti COVIP del 23 aprile 1998) aveva evidenziato la diversità dell’espressione «funzioni di carattere direttivo» presente nelle norme all’epoca vigenti sui requisiti di professionalità (art. 4, decreto ministeriale n. 211 del 1997), rispetto alla dicitura «funzioni di direzione», utilizzata nell’allora vigente disciplina delle incompatibilità (art. 8, comma 8, decreto ministeriale n. 703 del 1996). La conseguenza era l’inapplicabilità delle norme in materia di incompatibilità alle «funzioni di carattere direttivo», tenuto conto del diverso tenore letterale e della differente ratio sottostante alle due norme.
Di recente la questione è stata posta all’attenzione della Commissione di Vigilanza sui fondi pensione (COVIP), la quale ha ritenuto che le normative succedutesi nel tempo, sia riguardo alle incompatibilità sia riguardo ai requisiti di professionalità, siano in buona parte assimilabili. Conseguentemente, restano valide le precisazioni contenute negli Orientamenti del 1998, ivi compresa la possibilità di ricomprendere nella disciplina delle incompatibilità, di cui all’art. 9, decreto ministeriale n. 166 del 2014, solo coloro che svolgono funzioni direttive apicali presso il gestore convenzionato o il depositario o le altre società del gruppo di appartenenza.
Una lettura della norma che resta a nostro avviso non condivisibile: non si comprende perché, ad esempio, rivestire la qualifica di direttore (e si badi non di dirigente) in funzione apicale presso il gestore convenzionato possa differenziarsi sul piano sostanziale da quella di quella di«funzionario con funzioni direttive» presso il medesimo gestore. Ciò in quanto un dirigente o un funzionario con funzioni direttive potrebbe essere comunque incentivato a consigliare un prodotto finanziario o un servizio di investimento in funzione della sua appartenenza al medesimo gruppo del gestore, o finanche in funzione delle commissioni o delle retrocessioni di commissioni percepite per l’attività di collocamento/distribuzione e non semplicemente in base al rendimento atteso per il fondo pensione.
Invero una distinzione si può prospettare solo con riferimento alla figura dirigenziale, coerentemente a quanto la Suprema Corte di Cassazione costantemente afferma (v. sentenza n. 20600 del 9 settembre 2013) in tema di distinzione tra la figura del dirigente e quella dell’impiegato con funzioni direttive. In particolare se il dirigente è colui che è preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale, o comunque sia ad una branca o settore autonomo di essa in quanto è dotato di poteri tali da consentirgli di imprimere, sia pure nell’osservanza delle direttive datoriali, un indirizzo e un orientamento al complessivo governo aziendale, con conseguente assunzione di responsabilità ad elevato livello; l’impiegato con funzioni direttive è, invece, preposto ad un singolo ramo di servizio, ufficio o reparto e svolge le sue mansioni sotto il controllo dell’imprenditore o di un dirigente, con conseguente limitazione sia dei suoi poteri d’iniziativa, sia delle sue responsabilità. Ne consegue allora che non è sufficiente, al fine di integrare una funzione dirigenziale, il coordinamento di un gruppo di impiegati addetti ad un ufficio ovvero nel caso di attribuzione di compiti che, pur presentando profili di autonomia, siano svolti con poteri d’iniziativa circoscritti ad un singolo servizio, ufficio o reparto e sotto il controllo dell’imprenditore.
Peraltro, la diversità di discipline tra assegnazioni di “funzioni apicali” e “funzioni direttive” non sembra rispondere neppure a quanto indicato dalla direttiva dell’Unione Europea n. 2004/39/CE del 21 aprile 2004 che all’art. 18semplicemente parla «(…) di conflitti di interesse che potrebbero insorgere tra tali imprese, inclusi i dirigenti, i dipendenti e gli agenti collegati o le persone direttamente o indirettamente connesse e i loro clienti o tra due clienti al momento della prestazione di qualunque servizio di investimento o servizio accessorio o di una combinazione di tali servizi (…)».
BIBLIOGRAFIA
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