IL SISTEMA DI GARANZIE PREDISPOSTO IN ITALIA PER LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI PREVIDENZIALI DEI FONDI PENSIONE: LA CONFIGURAZIONE SOGGETTIVA DELLE FORME PENSIONISTICHE COMPLEMENTARI
THE SYSTEM OF GUARANTEES ESTABLISHED IN ITALY IN SUPPORT OF THE OBJECTIVES OF SOCIAL SECURITY PENSION FUNDS: THE SUBJECTIVE CONFIGURATION COMPLEMENTARY PENSION FORMS
Artigo recebido em 20/3/2017 - Aprovado em 26/3/2017
Sommario: 1. Profili generali della previdenza complementare in Italia e specifici dell’analisi – 2. I fondi pensione italiani come enti “non profit organisations”. – 3. Fonte istitutiva e fonte costitutiva. – 4. Gli obblighi strumentali nascenti dalla fonte istitutiva e il passaggio dalla fase istitutiva a quella costitutiva. – 5. La disciplina della struttura soggettiva dei fondi pensione. – 6. Il fondo pensione aperto come patrimonio separato. – 7. I fondi pensione esterni: profili generali. – 8. Trasformazione, fusione, scissione di fondi pensione associativi. – 9. Considerazioni sulla possibile costituzione di un fondo pensione tramite trasformazione di una preesistente associazione o scorporo dalla medesima. – 10. L’organizzazione dei fondi pensione associativi: il principio di pariteticità. – 10.1. Metodo elettivo, principio di democrazia diretta e rappresentatività degli organi collegiali. – 11. La responsabilità degli amministratori delle associazioni di previdenza complementare. – 12. Le fondazioni di previdenza complementare: caratteri tipologici e differenze col patrimonio di destinazione e con l’associazione. – 13. L’evoluzione della figura della fondazione e i fondi pensione. – 14.1. Individuazione dei soggetti fondatori. – 14.2. I fondatori e l’amministrazione della fondazione. – 15. I poteri degli amministratori della fondazione previdenziale. – 16. Il rilievo pratico della forma fondazionale in Italia. – Bibliografia.
1. Profili generali della previdenza complementare in Italia.
Fino al 1993 l’istituzione di forme pensionistiche complementari in Italia trovava una sua legittimazione come espressione dell’esercizio della libertà sindacale (art. 39, comma 1, Costituzione) e come concretizzazione della libertà della previdenza privata (art. 39, comma 5, Costituzione). Con l’emanazione, prima del decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124 e, poi, del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 sono state poste le premesse per la nascita di un corpo normativo che disciplinasse in modo organico e autonomo l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema pensionistico pubblico «al fine di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale» (art. 1, comma 1, d.lgs. n. 252/2005).
Segnatamente, la scelta di fondo, una volta realizzata l’idea di regolarne il fenomeno, è stata quella di disciplinare la previdenza complementare come “secondo pilastro” del sistema previdenziale italiano (il “primo pilastro” è la previdenza obbligatoria) su base “volontaria”–, in quanto il lavoratore sceglie se aderire o meno ad una forma pensionistica complementare, – con un sistema “a capitalizzazione”– nel quale i contributi versati dai singoli lavoratori restano pur sempre nominativi, ancorché restituiti e rivalutati al momento dell’accesso alla rendita o alla pensione complementare –, e “a contribuzione definita” – posto che è preventivamente stabilita la misura del contributo, ma non anche la prestazione complementare, il cui importo è commisurato, oltre ai contributi versati, ai rendimenti derivanti dagli impieghi delle risorse (Cinelli 2015, 634 e ss.; Persiani 2006, 341 e ss.; Tursi 2007, 537 e ss.).
Peraltro alla già ricordata libertà di scelta della forma pensionistica complementare cui aderire inizialmente (art. 1, comma 2, d.lgs. n. 252/2005), fa quasi da controcanto la rimodulazione del principio di libertà individuale di adesione alla previdenza complementare, imposta dall’introduzione in Italia della regola del cosiddetto “conferimento tacito”del trattamento di fine rapporto (art. 8, comma 7, lett. b), d.lgs. n. 252/2005). In base a tale regola, il trattamento di fine rapporto “maturando” del lavoratore che, nel semestre decorrente dall’assunzione (se assunto dopo il 31 dicembre 2007) non scelga espressamente di mantenerlo né di conferirlo ad una forma pensionistica complementare, viene “automaticamente” devoluto ad una delle forme pensionistiche complementari collettive ovvero in ultima istanza ad un fondo pensione “extra-sistemico”, di natura residuale, istituito presso l’INPS (Istituto Nazionale di Previdenza Sociale).Resta in ogni caso il dato che la libertà di adesione rimane elemento costitutivo della previdenza complementare italiana (Tursi 2007, 543; Bollani 2007, 605 ss.), configurandosi il meccanismo del “conferimento tacito”, tutt’al più, come una deroga meramente formale (Pandolfo 2006, 186).
Ad ogni modo, trattandosi di accantonamenti aventi una finalità meramente previdenziale, gestiti da soggetti ed enti di diritto privato, il legislatore italiano ha riconosciuto una particolare rilevanza al sistema di garanzie e tutele dell’aderente alla forma pensionistica complementare. Gli esempi al riguardo sono numerosi e rilevanti.
Si pensi alla previsione legislativa che assicura al fondo pensione la titolarità delle risorse da affidare ai soggetti abilitati alla gestione, attraverso la stipulazione di apposite convenzioni (art. 6, d.lgs. n. 252/2005); all’indispensabilità di costituire un patrimonio separato e autonomo rispetto a quello dei gestori finanziari incaricati di eseguire le politiche di investimento e di ripartizione del rischio (Squeglia 2011, 345); alla necessità di individuare nello statuto della forma pensionistica complementare (art. 6, comma 11, d.lgs. n. 252/2005) i criteri di ripartizione del rischio nella scelta degli investimenti; all’obbligatorietà di indicare le risorse accantonate per finalità diverse da quelle perseguite dal fondo pensione, o dei creditori di rivalersi su di esse; all’obbligo di affidare le risorse raccolte ad una banca depositaria, la quale esegua le disposizioni del gestore finanziario solo dopo averne verificato la conformità alla legge e alle fonti statutarie e regolamentari del fondo pensione (art. 7, d.lgs. n. 252/2005); all’attribuzione di specifici poteri di controllo ad una specifica autorità di vigilanza del settore, denominata Commissione di Vigilanza sui fondi pensione (artt. 18 e 19, d.lgs. n. 252/2005); al fitto reticolato di norme da osservare in materia di conflitti di interesse, tenendo presente la specificità dei fondi pensione e dei principi di cui alla direttiva europea del 21 aprile 2004, n. 2004/39/CE (art. 5, d.lgs. n. 252/2005; decreto ministeriale 21 novembre 1996, n. 703; decreto ministeriale 2 settembre 2014, n. 166; Righini 1998; Squeglia 2012 e 2017); infine, alla previsione che il fondo pensione sia un soggetto giuridico autonomo (c.d. “fondo esterno”), vale a dire separato sia dai soggetti promotori sia dalle aziende (e dai datori di lavoro) da cui dipendono i lavoratori iscritti (art. 4, d.lgs. n. 252/2005; cfr. Tursi 2004;Cinelli 2015; Francario 2006, 349 ss.; Squegliab 2014, 26 e ss.).
Ed è proprio la configurazione delle forme pensionistiche complementari ad essere oggetto di approfondimento nelle pagine che seguono, costituendo essa un elemento caratteristico dell’impostazione data dal legislatore italiano al sistema della previdenza complementare. Ciò poiché se la forma pensionistica complementare è un centro di iniziativa finalizzato a massimizzare la funzione previdenziale per i propri iscritti (Squeglia 2011), allora il suo operato non può che essere indirizzato alla realizzazione di questo obiettivo. Basti riflettere che, nell’esperienza italiana antecedente all’introduzione della predetta normativa organica del 1993 e del 2005, diversi trattamenti pensionistici complementari (o aggiuntivi), di natura segnatamente aziendale, erano strutturati nella forma del “fondo pensione interno”. In questi casi, l’unica forma di tutela dell’aderente che lo salvaguardasse rispetto all’evoluzione negativa delle vicende aziendali, era la configurazione del patrimonio di destinazione ai sensi dell’art. 2117, codice civile (Squeglia 2014b, 26 e ss.; Tursi 2001; Bessone 2000; Candian 1998). Una soluzione, questa, che ora è in Italia segnatamente relegata ad ipotesi residuali, precisamente ai fondi pensione “preesistenti” – vale a dire fondi pensione istituiti antecedentemente all’emanazione del decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124 – e ai fondi pensione “aperti”, ovverossia fondi istituiti direttamente da soggetti abilitati alla gestione (compagnie di assicurazione, banche, società di intermediazione mobiliare e società di gestione del risparmio).
Come si avrà modo di rilevare nel prosieguo, in Italia l’analisi giuridica della configurazione soggettiva dei fondi pensione implica una rivisitazione delle tematiche civilistiche dei soggetti e delle persone giuridiche (nonché dei c.d. “patrimoni di destinazione”): rivisitazione che, però, sarebbe sterile se non fosse condotta avendone di mira il proficuo incontro con quella particolare attività non lucrativa, ma a connotazione non altruistica e non riducibile in termini di mera “utilità sociale”, che è l’attività di previdenza privata. Si aggiunga, poi, che la focalizzazione di questi profili coinvolge anche il problema della giustificazione funzionale del ricorso alle figure soggettive del libro primo del codice civile italiano (integrate, in via sostanzialmente residuale, da quella di cui all’art. 2117 codice civile ), sotto la duplice angolazione della possibile valorizzazione della specificità di ciascuna di esse, e dell’accertamento circa la natura permissivo-promozionale, o cogente-conformativa, della regolazione soggettiva dei fondi pensione.
Preliminarmente occorre allora soffermarsi sul vincolo previdenziale cui soggiacciono le forme pensionistiche complementari e, in particolare, sulla possibile differenza con le “organizzazioni non profit”.
2. I fondi pensione italiani come “non profit organisations”.
La collocazione legislativa delle forme pensionistiche complementare di tipo negoziale (o chiuse) in Italia – ai quali limitiamo l’analisi cade nel campo delle “organizzazioni non profit”, caratterizzate dall’assenza di lucro soggettivo, in assonanza con la regola nordamericana (e francese, almeno fino al 1978) del non distribution constraint (De Carli 2000, 86 ss.; Ponzanelli 1988b e 1993; Ghezzi 1996, 685; Sandulli 1994, 255; Iorio 1997, 11). Ciò comporta che il divieto di distribuzione degli utili (non distribution constraint) costituisca il più significativo discrimine funzionale tra gli enti del libro primo e quelli del libro quinto del codice civile italiano (sulla questione, v. almeno Galgano 1969 e 1976; Preite 1988, 338 ss.; Ponzanelli 1985; Zoppini 1995, 94 ss.; De Carli 2000, 92 ss.; Carrabba 2001, 763 ss.); l’inserimento dei fondi pensione tra le figure soggettive contemplate nel titolo II del codice civile non esclude la compatibilità tra la disciplina delle organizzazioni non profit e la disciplina della previdenza complementare, essendo individuabile, al contrario, una coerenza di fondo tra questa e la funzione, oltre che la struttura, di tali organizzazioni (v. pure Ongaro 1994, 517). Solo a questa stregua, del resto, si spiega la decisione del legislatore di rinviare a figure organizzative e soggettive già disciplinate e diverse tra di loro, piuttosto che ad una sola di esse, o ancora, piuttosto che crearne una nuova (il caso spagnolo è illuminante a tal proposito: v. Tursi 2001, 174 ss.). Due esempi possono meglio chiarire questa scelta del legislatore.
Non contraddice la natura non profit dei fondi pensione l’art. 2123 del codice civile italiano, che attribuisce inderogabilmente ai prestatori di lavoro che abbiano contribuito a fondi di previdenza aziendali il «diritto alla liquidazione della propria quota, qualunque sia la causa della cessazione del contratto». La norma, lungi dall’attribuire al lavoratore, iscritto ad un fondo pensione costituito in forma associativa, il diritto alla liquidazione della quota in caso di recesso dall’associazione, si riferisce all’ipotesi in cui, in conseguenza della “cessazione del contratto” di lavoro, vengano meno i requisiti di partecipazione al fondo pensione; e la soluzione dettata dalla norma codicistica trova un sostanziale avallo nella disciplina stabilita, per tale ipotesi, dall’art. 14 del d.lgs. n. 252/2005. Nella diversa ipotesi in cui il lavoratore manifesti la volontà di recedere dall’associazione-fondo pensione, in costanza dei requisiti di partecipazione alla medesima, trova invece piena applicazione la richiamata normativa codicistica sulle associazioni (Tursi 2001, 318; Mazziotti 1995, 208; P. Tosi 1996, 441; ma sull’eventualità di un “recesso per giusta causa”, cfr.Bessone 2000, 258 ss.).Ne risulta confermata la natura “non restitutoria” dell’operazione negoziale posta alla base dell’attività di previdenza complementare, che la distingue da un qualunque investimento finanziario (Ponzanelli 1985, 155 ss. e 1996, 102 ss.; Galgano 1976, 60 ss., 69; Simonetto 1959, 115): i requisiti di godimento delle prestazioni sono vincolati alla funzione previdenziale, in guisa tale da inibire il profilarsi di un nesso di causalità negoziale con i contributi versati (Tursi 2001, 123, 163 ss.; Squeglia, 2011 e 2014).
Né potrebbe essere diversamente, se il legislatore ha voluto che l’operazione previdenziale in oggetto passasse attraverso un contratto associativo o un negozio fondazionale, e non attraverso un contratto finanziario o assicurativo, cui invece si ricorre solo nella fase della gestione delle risorse accumulate, e con la necessaria intermediazione del fondo pensione.
Altro esempio può desumersi dal diritto al riscatto della posizione individuale in caso di cessazione dei requisiti di appartenenza al fondo originario (art. 14, comma 1, lett.b) e c), d.lgs. n. 252/2005). Contraddizione vi sarebbe, se questo diritto – di natura indubbiamente “restitutoria” – operasse nell’ambito del rapporto associativo, in palese ed insanabile deroga alle regole di tale rapporto (artt. 24 e 37,codice civile); ma così non è, poiché esso spetta nell’ipotesi in cui la partecipazione al fondo-associazione sia venuta meno a causa di un evento estraneo alla volontà del singolo partecipante di proseguire o meno nella partecipazione al fondo (v. Tursi 2001, 320).
Nel caso dei fondi pensione, però, l’assenza di lucro soggettivo costituisce solo una sorta di “cerchio minore” rispetto alla finalità previdenziale, che va comunque rispettata: essa comporta non solo l’impossibilità di percepire vantaggi che non siano le prestazioni previdenziali, ma anche l’impossibilità di una perdita di queste ultime per effetto di una libera scelta dell’organizzazione. Ciò significa che, in caso di scioglimento del fondo, da un lato, devono essere tutelati i diritti già maturati dai pensionati e, dall’altro, non deve essere compromessa la tutela previdenziale dei lavoratori che non abbiano ancora maturato il diritto alle prestazioni complementari.
Risponde appieno a questa duplice esigenza l’art. 15, comma 1, d.lgs. n. 252/2005 che, nel disciplinare l’ipotesi dello «scioglimento del fondo pensione per vicende concernenti i soggetti tenuti alla contribuzione», prevede, per i pensionati, l’«intestazione diretta della copertura assicurativa», e per gli iscritti in servizio l’applicazione delle medesime regole che disciplinano l’ipotesi del venir meno dei requisiti di partecipazione, ossia il diritto di riscattare la propria posizione individuale o, in alternativa, di trasferirla ad un altro fondo pensione.
Infine, nemmeno la tendenza della giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea ad attrarre nella nozione d’impresa, ai fini dell’applicazione del diritto della concorrenza, i fondi di previdenza complementare, è significativa ai fini della natura lucrativa di tali fondi nel diritto interno. Se è vero che la natura imprenditoriale dei fondi pensione è stata affermata solo nelle ipotesi in cui essi stabiliscano «l’ammontare dei contributi e delle prestazioni» e funzionino «in base al principio della capitalizzazione», restando esclusa quando essi «svolgano una funzione di carattere esclusivamente sociale, fondata sul principio della solidarietà nazionale, in assenza di qualunque scopo di lucro, corrispondendo le prestazioni stabilite dalla legge, indipendentemente dall’importo dei contributi versati» (C. Giust. Europea 17.2.1993, Poucet v. AGF et Camulrac, e Pistre v. Concava); e soprattutto vero che i fondi pensione sono sottratti alle regole della concorrenza«nei limiti in cui l’applicazione di tali norme (...) osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata» (C. Giust. 21.9.1999). La questione della natura for profit o non profit dei fondi pensione negli ordinamenti nazionali resta pertanto, quantomeno, non pregiudicata dalla nozione comunitaria d’impresa ai fini delle regole della concorrenza.
3. Fonte istitutiva e fonte costitutiva.
Partendo dal dato della natura “non profit” delle forme pensionistiche complementari, la tematica di più immediato impatto nell’ambito della configurazione giuridica soggettiva in Italia è quella attinente al momento genetico delle forme pensionistiche complementari e dunque, per quanto specificamente concerne la loro configurazione soggettiva, quella del rapporto tra le fonti negoziali (atti costitutivi, statuti, regolamenti, delibere assembleari, etc.) costitutive e regolamentari delle figure soggettive abilitate ex lege a veicolare la previdenza complementare, e le fonti anch’esse negoziali, ma a connotazione prevalentemente collettivo-sindacale (almeno sulle cosiddette “forme pensionistiche complementari collettive”), che la lex specialis della previdenza complementare chiama “fonti istitutive”.
In quest’ambito tematico risulta attratto l’ulteriore profilo attinente al rapporto tra dette fonti e quelle pubblicistiche-normative, che nel loro insieme compongono un vero e proprio «ordinamento sezionale a struttura composita» (Bessone 2000, 45 e 2001, 1260): fonti primarie quali la legge delega 23 agosto 2004, n. 243 e il decreto legislativo 5 dicembre 2005, n.252; fonti secondarie statali quali i regolamenti ministeriali cui la lex specialis di volta in volta rinvia; fonti secondarie e atti amministrativi generali – ma pure “indirizzi”e “orientamenti” di moral suasion –, di altre autorità amministrative (in primis, la Commissione di Vigilanza sui fondi pensione) in qualità di specifica autorità di vigilanza del settore.
Nel procedimento formativo dei fondi pensione “chiusi”si riscontra una netta distinzione tra gli atti negoziali richiamati dall’art. 3,d.lgs. n. 252/2005 che, definendo «identità e programma del fondo pensione, ambito dei soggetti legittimati all’adesione e sue modalità, regime delle contribuzioni e quant’altro costituisce prima regolazione dell'iniziativa previdenziale», pongono le basi del programma pensionistico complementare; e le fonti propriamente “costitutive”, richiamate dall’art. 4, d.lgs. n. 252/2005, che sono invece «gli atti negoziali che organizzano la forma pensionistica con una puntuale disciplina di statuto e la configurano come soggetto di diritto» (associazione o fondazione) o come patrimonio separato (Bessone 2001, 1265-1266).
Il passaggio logico, che comunemente fa seguito a questo rilievo, è che tra i due ordini di fonti sussisterebbe una distinzione di competenze, essendo riservata alla “fonte istitutiva”, quale «strumento negoziale di carattere collettivo diverso ed anteriore all’atto di costituzione del fondo», la «composizione degli interessi delle parti interessate alla costituzione del fondo, mediante la definizione degli obblighi e dei diritti dei futuri soci» (o, in caso di fondazione, dei futuri beneficiari); mentre l’atto costitutivo del fondo si limiterebbe a creare e disciplinare lo strumento organizzativo destinato ad attuare il rapporto negoziale derivante dalla fonte istitutiva (Volpe Putzolu 1994, 228-229; Candian 1998, 87, 91; Bessone 2001).
Invero, non sembra che dal decreto legislativo sia enucleabile un criterio di distinzione funzionale, ché dalla ricognizione dei numerosi riferimenti, o rinvii, alle fonti costitutive si ricava piuttosto l’impressione di una loro sostanziale episodicità e a-sistematicità. Va preliminarmente osservato che, trattandosi di manifestazioni d’autonomia privata, e dunque libere nei limiti, pur numerosi e pervasivi, stabiliti dalle norme inderogabili dell’ordinamento settoriale della previdenza complementare (Bessone 2000 e 2001), ai menzionati rinvii va riconosciuta portata indicativa ed esemplificativa, non esaustiva, delle “competenze” delle fonti in parola.
A ogni modo, quel che è dato rilevare non è un riparto di competenze, ma una sostanziale indeterminatezza della presunta linea di confine tra materie rimesse all’una o all’altra fonte; quello che emerge con nitidezza è piuttosto il dato della sottordinazione gerarchica delle fonti costitutive e statutarie, rispetto a quelle istitutive (oltre che, naturalmente, rispetto a quelle propriamente normative, legali e sub-legali).
In sintesi, il rapporto tra fonti istitutive e fonti costitutive delle forme pensionistiche complementari va letto in termini di dialettica tra eteronomia e autonomia negoziale: le fonti negoziali delle associazioni e delle fondazioni pensionistiche godono del regime di libertà riconosciuto all’autonomia privata (art. 1322, codice civile ), nel rispetto delle disposizioni dettate dalle norme imperative primarie e secondarie, nonché da quelle promananti dalle fonti istitutive; l’inosservanza di tali limiti è causa di nullità per violazione di norme imperative integratrici (Bessone 2002, 323), e non per difetto di competenza.
Certo è che la lex specialis condiziona la costituzione di una forma pensionistica complementare alla stipulazione di un atto negoziale, a carattere collettivo o comunque collettivamente promosso, e ad efficacia (oltre che contenuto) normativa, non bastando, all’uopo, la costituzione nelle ordinarie forme civilistiche proprie delle figure soggettive di cui al libro primo del codice civile.Di norma, nel procedimento formativo del fondo pensione “chiuso”, si registra un’amplissima segmentazione negoziale: tanto le fonti costitutive (atti costitutivi, statuti, regolamenti), quanto, e soprattutto, quelle istitutive, si risolvono in una successione di plurimi negozi giuridici a diverso tasso di vincolatività, spazianti dal mero impegno programmatico, all’efficacia (solo) “obbligatoria”, all’efficacia (anche) “normativa” sui rapporti di lavoro o comunque sulla situazioni giuridiche soggettive individuali.
Più in generale, la possibile informalità del procedimento di costituzione delle forme pensionistiche complementari è drasticamente ridotta, per i fondi di nuova generazione, dalla necessità di conseguire la prescritta autorizzazione, con conseguente iscrizione nell’albodi cui all’art. 4, comma 6, del decreto, nonché dalla necessità, per quelli che aspirino alla personalità giuridica, o che a tale forma siano vincolati perché costituiti nell’ambito di “categorie, comparti o raggruppamenti”, di ottenere il riconoscimento.
Si deve osservare che, sul piano formale, il decreto non pone un vincolo di pregiudizialità del riconoscimento rispetto all’autorizzazione e all’iscrizione, contemplando in proposito due distinte procedure, rispettivamente ricadenti nelle competenze del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, e in quelle della Commissione di Vigilanza sui fondi pensione.
La necessità dell’autorizzazione – che la COVIPè tenuta a rilasciare, in presenza dei requisiti legali e regolamentari, entro 60 giorni dal ricevimento della relativa istanza, ovvero entro 30 giorni dal ricevimento dell’ulteriore documentazione eventualmente richiesta– comporta, peraltro, l’assoggettamento alle norme stabilite dai regolamenti sul procedimento di autorizzazione delle forme pensionistiche complementari, dagli “orientamenti in materia regolamentare”e, in generale, dai“provvedimenti di carattere generale” emanati dalla COVIPle quali disegnano, a oggi, un iter procedurale che condiziona le modalità di costituzione, tramite numerose e vincolanti prescrizioni in tema di elementi essenziali sia dell’istanza, siadello statuto.
Si pensi, innanzitutto, alla necessità della indicazione e allegazione distinte della fonte istitutiva, dell’atto costitutivo e dello statuto del fondo pensione o alla prescrizione dell’atto pubblico per la costituzione, in qualsiasi forma, del fondo pensione.
4. Gli obblighi strumentali nascenti dalla fonte istitutiva e il passaggio dalla fase istitutiva alla fase costitutiva.
Conviene mettere adeguatamente a fuoco il momento in cui si verifica il passaggio dalla fase istitutiva a quella costitutiva del fondo pensione: come sul piano sostanziale, si rinvengono situazioni giuridiche soggettive in capo ai singoli destinatari della forma pensionistica complementare, generate dalla fonte istitutiva ma azionabili nella successiva fase costitutiva, analogamente, sul piano procedimentale, si rinvengono situazioni giuridiche preliminari e strumentali, che la fonte istitutiva pone in essere in capo ai “soggetti promotori” della fonte costitutiva.Si tratterà – in caso di contratto collettivo – di obblighi riconducibili alla c.d. “parte obbligatoria” di quest’ultimo (Cass. n. 5625/2000), e risolventisi nella messa in atto di tutte le iniziative utili alla costituzione dei fondi, ivi compresa la partecipazione diretta al procedimento stipulativo, in qualità di parte “promotrice” (ma anche sostanziale, come vedremo, nell’ipotesi della fondazione) del negozio costitutivo (ampiamente, Bessone, 2002, 302 ss.).
Il discorso sulla struttura delle fonti costitutive della previdenza complementare, e in particolare sul loro rapporto con le fonti istitutive, non può dirsi certo, a questa stregua, concluso: a complicarlo ulteriormente contribuisce la diversità morfologica delle figure soggettivedelle figure soggettive che costituiscono i fondi pensione, e che introduce l’importante variabile del soggetto “promotore” della fonte costitutiva, distinto, o comunque distinguibile concettualmente, dal “promotore” della fonte istitutiva.Questo discorso potrà dunque essere ripreso solo dopo aver affrontato la tematica della struttura soggettiva dei fondi pensione.
5. La disciplina della struttura soggettiva dei fondi pensione.
Risolvendo uno dei principali problemi pratici che si erano posti agli interpreti e agli operatori in assenza di una disciplina legale della previdenza privata, la fonte normativa ha operato una chiara definizione strutturale dei fondi pensione.
La lex specialis (art. 4, comma 1, lett. a) e b), d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252) ha compiuto due scelte di fondo: quella di restringere il campo dei soggetti abilitati a svolgere attività di previdenza complementare alle organizzazioni collettive di cui al libro primo del codice civile, ammettendo per le sole forme preesistenti anche la figura organizzativa del “patrimonio separato”, e comunque escludendo inderogabilmente il regime delle società; quella della tendenziale neutralità, nel descritto ambito, della forma giuridica prescelta dall’autonomia privata (v. Bollani 2007, 610; Tursi 2004).
L’art. 4,d.lgs. n. 252/2005 prescrive, in linea generale, che le “forme di previdenza” di cui all’art. 1 rivestano la forma di “fondi pensione” costituiti o «come soggetti giuridici di natura associativa ai sensi dell’art. 36 del codice civile», o «come soggetti dotati di personalità giuridica», o, infine, «costituiti nell’ambito del patrimonio di una singola società (...) attraverso la formazione di un patrimonio di destinazione, separato ed autonomo (…), con gli effetti di cui all’art. 2117 del codice civile».
A fronte di una «forma pensionistica complementare», viene dunque prescritta, per i fondi di nuova costituzione, l’adozione di una struttura soggettivizzata (cc.dd. “fondi esterni”), che deve poi necessariamente attingere alla piena personalità giuridica nel caso dei «fondi pensione costituiti nell’ambito di categorie, comparti o raggruppamenti» (art. 4, comma2,d.lgs. n. 252/2005): espressioni, queste ultime, il cui significato va individuato rifuggendo sia da concettualismi evocativi della nozione di “categoria ontologica” (per tutti, Giugni 1979), sia da categorizzazioni normative stabilite ad altri fini – per esempio, le categorie legali ex art. 2095, codice civile, o le “categorie merceologiche” –, e dunque riferendole semplicemente ai fondi pensione super-aziendali (multi-employer, per usare un efficace anglismo).
6. Il fondo pensione aperto come patrimonio separato
Se quella del fondo “interno” ex art. 2117, codice civile,è un’ipotesi ormai residuale nell’ordinamento italiano, come si è già evidenziato in precedenza, sono invece ipotesi normali e strutturali quelle contemplate dall’art. 12,d.lgs. n. 252/2005, in ordine, rispettivamente, ai fondi pensione aperti ed al regime giuridico del patrimonio dei fondi pensione affidati ai soggetti gestori di cui all’art. 6, comma 1.
Soffermando la nostra attenzione sui soli fondi pensione aperti, si deve osservare che tali fondi, non trovando origine in una delle fonti istitutive di cui all’art. 3, ma derivando dall’iniziativa di uno dei soggetti che istituzionalmente possono ricoprire il ruolo di gestori delle risorse, sono patrimoni separati nell’ambito del patrimonio di tali soggetti, i quali li costituiscono ed imprimono loro il vincolo di scopo con apposita deliberazione accompagnata, anche in questo caso, da un “protocollo di autonomia gestionale”. È la COVIP, poi, a chiarire che anche il patrimonio dei fondi pensione aperti, come quello dei fondi chiusi “interni”, «non è (...) soggetto ad azioni esecutive da parte dei creditori della società (…), né da parte dei creditori degli iscritti (…) e non può essere coinvolto nelle procedure concorsuali che riguardano la società» (COVIP, orientamenti in materia regolamentare in tema di fondi pensione aperti in regime di contribuzione definita, 16.9.1997, tit. 6°, punto 1).
L’art. 12, comma 3, d.lgs. n. 252/2005, infine, nel delineare il procedimento autorizzatorio, precisa significativamente che esso ha ad oggetto non il semplice “esercizio”, ma la stessa “costituzione” del fondo: donde, sul piano procedurale, la necessità di una specifica delibera istitutiva, successiva all’autorizzazione, e di un successivo sub-procedimento per l’iscrizione nell’albo dei fondi pensione; e sul piano sistematico, la natura costitutivo-discrezionale e non meramente accertativa dell’atto di iscrizione (v. Notarmuzi 1999, 77).
Sussiste una chiara analogia strutturale tra la fattispecie del fondo pensione aperto e quella del fondo pensione interno chiuso, entrambe evocative di un fenomeno di segregazione patrimoniale, strumentale alla realizzazione di un vincolo di scopo previdenziale, qualitativamente distinguibile dalla “segregazione patrimoniale” (Lupoi 1998b, 3391), che pure si verifica nel rapporto gestorio disciplinato dall’art. 6, comma 4-ter, del decreto: in questo caso, infatti, il vincolo di scopo si pone a vantaggio e a tutela del fondo pensione, e nei confronti del soggetto gestore (il quale agisce – volendo utilizzare a scopo esemplificativo l’apparato concettuale dei pension trusts nordamericani –for and on behalf of his principal, e quindi alla stregua di un agent del fondo pensione e non di un trustee dei beneficiari del fondo); nel caso dei fondi pensione “chiusi”interni e di quelli aperti, invece, il vincolo si pone a vantaggio proprio dei lavoratori aderenti al fondo, nei confronti del datore di lavoro o dell’impresa istitutrice del fondo (i quali, nel parallelo coi pension trusts, richiamano da presso la figura del trustee) (Tursi 2001, 301).L’analogia tra la configurazione soggettiva dei fondi pensione “chiusi” interni e quella dei fondi pensione aperti si arresta, tuttavia, di fronte al dato della coincidenza (possibile, anche se, deve ritenersi, non necessaria), nei secondi, tra titolare del fondo e gestore del suo patrimonio.Questo dato genera una latente sovrapposizione tra due logiche di separazione patrimoniale che il decreto tiene – come s’è accennato – concettualmente distinte nei fondi pensione chiusi interni (che non gestiscano direttamente le risorse, come reso possibile dall’art. 18, comma 1, del decreto): quella tra patrimonio del fondo e patrimonio dell’impresa, e quella tra patrimonio del fondo e patrimonio del soggetto gestore (Tursi 2001, 308-309); da questa sovrapposizione deriva la necessità, avvertita in relazione ai fondi aperti, di spingere la separatezza fino alle soglie dell’autonomia soggettiva, istituzionalizzando la figura del “responsabile” del fondo, cui è sostanzialmente rimessa la problematica funzione di garante degli interessi degli iscritti, a fronte del duplice ruolo di titolare e gestore assunto dalla società di gestione del fondo pensione. La problematicità di tale figura – e della stessa configurazione strutturale dei fondi pensione aperti (Candian 1998, 106, 129-130) – affiora in maniera esemplare nella previsione secondo cui detto responsabile esercita il diritto di voto «nell’esclusivo interesse degli iscritti», laddove è regola generale quella della «attribuzione in ogni caso al fondo pensione della titolarità dei diritti di voto inerenti ai valori mobiliari nei quali risultano investite le disponibilità del fondo medesimo» (art. 6, comma8, lett. c),d.lgs. n. 252/2005).
Risulta quanto mai criticabile, allora, la mancata estensione ai fondi pensione aperti del modello partecipativo, nemmeno nella rudimentale forma prevista per i fondi interni chiusi.
Si tratta di una carenza legislativa criticabile anche sul piano comparato (Tursi 2001, 413 ss.), e non esente da censure anche di costituzionalità.
7. I fondi pensione esterni: profili generali
Se nei fondi “interni” il vincolo di scopo costituisce il rimedio contro lo “sdoppiamento” tra il titolare de(i rapporti attinenti a)l fondo ed i beneficiari delle prestazioni erogate dal fondo medesimo, nei fondi “esterni” l’eventualità di un utilizzo abusivo del fondo è esclusa dalla coincidenza tra l’interesse istituzionale dei beneficiari e lo scopo del soggetto giuridico cui è affidata la soddisfazione di quell’interesse: ma allora la tutela degli iscritti non risiede più nella separazione rispetto al patrimonio di un soggetto terzo che agisce come amministratore e titolare fiduciario del fondo (così invece, Zoppini 1995, 113), bensì direttamente nella garanzia del corretto funzionamento e della solvibilità del soggetto giuridico cui è assegnato il fine previdenziale.
In questa luce, la regola della “esclusività” dello scopo del fondo pensione si spiega non tanto alla stregua dell’art. 2117,codice civile, (così, invece, Zoppini 1995, 115, nota 73), quanto in considerazione della infungibilità del fine solidaristico-previdenziale. L’inquadramento dei fondi pensione tra le organizzazioni non profit, consente di affrontare in una luce diversa il problema della presunta inconciliabilità tra il “vincolo di destinazione” e una almeno delle forme giuridiche soggettive alle quali si riconducono tipicamente i “fondi esterni”: quella associativa.
Non si riscontra alcun contrasto tra la natura “dominante” degli organi associativi e la finalità previdenziale dei fondi pensione, poiché, quando i fondi previdenziali abbiano forma associativa, non si configura un vincolo di scopo nei confronti dell’associazione, ma piuttosto un vincolo di solidarietà mutualistica tra gli associati (Romagnoli 1960), in coerenza con la causa stessa del negozio associativo.
Le associazioni-fondi pensione conservano, dunque, in via di principio, e nei limiti stabiliti dalle fonti istitutive, quella «disponibilità oggettuale e temporale dello scopo» (Zoppini 1995, 107), che costituisce tratto ineliminabile del contratto associativo: in particolare, dovrà riconoscersi il potere dell’assemblea di porre fine all’associazione stessa e quindi al fondo pensione, provocandone lo scioglimento (art. 21, comma 3, codice civile), anche senza che ricorrano le condizioni previste dall’art. 15,d.lgs. n. 252/2005; mentre, ove queste ricorrano, ovvero ricorrano le cause “titolate” di scioglimento previste dall’art. 27,codice civile, deve ritenersi ammissibile anche lo scioglimento anticipato rispetto all’eventuale termine finale di durata statutariamente previsto.
8. Trasformazione, fusione, scissione di fondi pensione associativi.
Analogamente, devono ritenersi in via di principio ammissibili la trasformazione, la fusione, la scissione di fondi pensione costituiti in forma associativa (per la configurabilità iure communi di queste fattispecie, v. i richiami in Tursi 2001, 342 ss.), incontrando limiti, ancora una volta, non nel vincolo di scopo, bensì nella peculiarità del rapporto con le fonti istitutive, oltre che nella disciplina legale dei fondi pensione (la quale, per esempio, esclude che possa operarsi la trasformazione in società di capitali).
In tal senso, le richiamate operazioni costituiranno, di norma, mera attuazione di previsioni delle fonti istitutive; ma non è da escludersi che possano operare autonomamente, nei limiti segnati dai criteri di individuazione dei destinatari, stabiliti dalle fonti istitutive: eventualità che può esemplarmente concretizzarsi quando, per effetto di un trasferimento d’azienda, s’imponga la necessità o anche solo l’opportunità di addivenire all’unificazione di diversi preesistenti fondi aziendali in un unico fondo, in alternativa allo scioglimento del fondo a quo (Tursi 2001, 463 ss.).
9. Considerazioni sulla possibile costituzione di un fondo pensione tramite trasformazione di una preesistente associazione o scorporo dalla medesima.
È anche possibile, peraltro, che alla costituzione di un fondo pensione in forma associativa si addivenga a partire da una preesistente associazione: sia che si tratti di un’associazione costituita tra i membri di una determinata collettività professionale, potenzialmente destinatari della previdenza complementare ex art. 2 del decreto (per esempio, gli associati a un circolo aziendale), la quale, in esecuzione di una previsione in tal senso della fonte istitutiva, deliberi ai sensi dell’art. 21, comma 2,codice civile, la trasformazione in fondo pensione, con le conseguenti modifiche statutarie; sia che si tratti di associazione legalmente impossibilitata a restringere o comunque limitare il proprio scopo all’esercizio della previdenza complementare.
Può essere, quest’ultimo, il caso di un ente previdenziale “privatizzato” ex d.lgs. n. 509/1994, che abbia assunto forma associativa (De Michele 1996), il quale promuova la costituzione di un’associazione “parallela” (Ponzanelli 1996, 121 ss.), destinata all’esercizio esclusivo della previdenza complementare, in esecuzione di una fonte istitutiva cui eventualmente lo stesso ente “di vertice” abbia partecipato, in veste, a sua volta, di parte di un patto accessorio, o addirittura di promotore (quando si tratti di “accordo tra lavoratori”) (v. pure Tursi 2001, 347).
10. L’organizzazione dei fondi pensione associativi: il principio di pariteticità
Nell’ambito della classificazione dei modelli di corporate governance in funzione del diverso grado di separazione tra proprietà e controllo e del diverso modo in cui essa opera, i fondi pensione negoziali si possono far rientrare nello schema del “two-tier system” nel quale il potere di gestione e di controllo è devoluto a due organi separati: il “supervisory board” (consiglio di sorveglianza), nominato dall’assemblea e privo di poteri esecutivi, che approva il bilancio, nomina, controlla e revoca il “management board” (consiglio di gestione), che è invece l’organo con responsabilità meramente esecutive (Squeglia 2014; Ferraris Franceschi 1994;Ceriani 1996).Tuttavia, è l’assetto. organizzativo dei fondi pensione a sollevare i più seri problemi di coordinamento con la disciplina civilistica delle associazioni.
Una delle regole più problematiche, sotto questo profilo, è quella che riguarda la composizione paritetica degli organi di amministrazione e controllo dei fondi pensione (non interni) cui contribuisca anche (o soltanto) il datore di lavoro (art. 5, comma 1,d.lgs. n. 252/2005): regola in cui si è vista la conferma di un «sostanziale ridimensionamento delle funzioni dell’assemblea, alla quale è sottratto il potere di nomina e revoca degli amministratori e dei revisori»(Volpe Putzolu 1994, 228, nota 8).
La critica presuppone l’inapplicabilità della regola in questione all’organo assembleare (Volpe Putzolu 1994, 228, nota 9; Lapadula-Pollastrini 1997, 70, 96): ché se essa valesse anche per tale organo, allora sarebbe superata dal rilievo che ciascuna componente dell’assemblea conserva intatto il suo potere di nomina e revoca degli amministratori.
E in effetti non mancano buoni argomenti a sostegno della tesi dell’inapplicabilità del criterio di pariteticità all’organo assembleare.
Si consideri, ad esempio, sul piano normativo-letterale, che l’art. 5, d.lgs. n. 252/2005 non menziona l’organo assembleare; che sui componenti degli “organi di amministrazione e controllo” cui l’art. 5, comma 1, riferisce la regola di pariteticità, grava la responsabilità professionale, amministrativa e penale di cui agli articoli del decreto medesimo: ciò che dimostra la mancata ricomprensione dell’assemblea tra i suddetti organi, ché altrimenti dovrebbe ipotizzarsi la responsabilità degli associati.
Sul piano dell’interpretazione logico-sistematica, poi, si deve considerare che se l’art. 5 fosse riferibile anche all’organo assembleare, ne deriverebbe la necessità di tale organo anche per i fondi pensione costituiti in forma di fondazione, relativamente ai quali – come si vedrà – la necessità di tale organo deve invece escludersi.
10.1. Metodo elettivo, principio di democrazia diretta e rappresentatività degli organi collegiali.
Neppure può ritenersi incompatibile con la disciplina delle associazioni la deroga al principio di democrazia diretta, implicita nella previsione del metodo elettivo per la nomina dei rappresentanti dei lavoratori nell’organo assembleare: la prevalente dottrina ritiene che tale principio non sia coessenziale al metodo collegiale, e sia pertanto derogabile, come peraltro confermato dalla prassi comunemente seguita nelle associazioni “complesse” (Ponzanelli 1996, 124).
Sembra, tuttavia, da escludersi la deroga allo stesso principio democratico-partecipativo, che si realizzerebbe qualora si ammettesse la designazione dei rappresentanti degli associati a opera di un soggetto collettivo esponenziale della categoria degli associati medesimi, in luogo del metodo elettivo: la volontà dell’associato non aderente all’organizzazione collettiva designatrice, infatti, non potrebbe in nessun modo considerarsi “rappresentata” in ordine alla formazione degli organi dell’associazione. Se è così, se ne deduce che proprio la deroga al criterio partecipativo di democrazia diretta rende necessario il metodo elettivo per la designazione dei componenti degli organismi gestionali dei fondi associativi.
Dalla combinata lettura della norma sulla composizione degli organi collegiali e di quella che definisce i “destinatari” della previdenza complementare (art. 2, comma 1, d.lgs. n. 252/2005), si ricava, però, la fondamentale indicazione che è inammissibile la partecipazione di soggetti che non siano espressione diretta dei componenti la “categoria” o il “raggruppamento” interessati, come individuati dalle fonti istitutive, con esclusione, dunque, dei rappresentanti di soggetti esponenziali di questi ultimi.
Si potrebbero, tutt’al più, problematicamente ipotizzare soluzioni che, nel rispetto sostanziale della regola di governo democraticamente partecipato del fondo pensione, attribuiscano a eventuali rappresentanze “di secondo grado” una partecipazione minoritaria all’interno degli organi di amministrazione e/o controllo (Tursi 2001, 362): siffatta soluzione si porrebbe in più avanzata posizione sulla linea già segnata dalla prassi, diffusa soprattutto tra i fondi di categoria, di istituire strutture di collegamento tra i soggetti sottoscrittori o promotori della fonte istitutiva della forma pensionistica complementare e il fondo medesimo (Bessone 2000, 186 ss.), e, sul piano dogmatico, si concilierebbecon la natura disponibile del diritto di voto, a fronte dell’indisponibilità dei diritti di intervento in assemblea, informazione, rendimento dei conti, impugnazione delle delibere assembleari invalide, recesso (Zoppini 1995, 106).
11. La responsabilità degli amministratori delle associazioni di previdenza complementare.
È comunemente rilevato, infine, il problema del difficile coordinamento delle regole sulla responsabilità degli amministratori delle associazioni non riconosciute (art. 38,codice civile) con il sistema di responsabilità amministrative, civili e penali costruito per gli amministratori dei fondi pensione (Bessone 2000, 216; Ferraro 2000b, 19; Candian 1998, 188 ss.; Sandulli 1994, 247).
In primo luogo, si registra la contraddizione tra la responsabilità esclusiva del fondo per le obbligazioni sociali, proprio dei fondi con personalità giuridica, nonché implicito nel rinvio alla disciplina della responsabilità degli amministratori delle società per azioni, contenuto nell’art. 15 del decreto (Ferraro 2000, 19; Squeglia – Tursi 2017), e la responsabilità patrimoniale personale e diretta di quanti agiscano in nome e per conto del fondo pensione, propria delle associazioni non riconosciute: sicché non sorprende che la COVIP (ad esempio, si v. COVIP, orientamenti 18.6.1997, tit. 1°, punto 3, 2° periodo) abbia “sconsigliato” l’adozione della forma associativa non riconosciuta, in considerazione delle «incertezze» da essa ingenerate «nella determinazione della disciplina da applicarsi».
D’altro canto, il suddetto regime di responsabilità risulta sproporzionato in eccesso se si considera che la disciplina legale dei fondi pensione ne delimita l’operatività nel campo del mercato finanziario, identifica un severo regime di controlli, costruisce per gli amministratori un sistema di responsabilità amministrative e professionali anche penali: meglio sarebbe stato optare decisamente per un «regime speciale del diritto delle associazioni in quanto soggetti esponenziali degli interessi del sistema di previdenza complementare», eventualmente nel quadro di una complessiva «riconsiderazione dell’intero impianto del diritto dei soggetti giuridici ex artt. 12 e 36 codice civile sotto il profilo delle responsabilità degli amministratori anche in vista della diffusione di detti modelli di soggettività, utilizzati ai fini pensionistici perfino nella (allora progettata, poi attuata) riforma della previdenza di base»(Sandulli 1994, 247, 258).
12. Le fondazioni di previdenza complementare: caratteri tipologici e differenze col patrimonio di destinazione e con l’associazione.
La scelta legislativa di includere tra le possibili configurazioni soggettive dei fondi pensione il modello fondazionale, pur essendo pienamente sintonica con la linea, da tempo in atto, di valorizzazione di questo istituto, soprattutto nell’attuazione di politiche di cooperazione tra pubblico e privato e nella dimensione del c.d. “privato sociale” o “terzo settore”, lascia tuttavia nel vago l’individuazione della possibile specificità operativa della fondazione rispetto all’associazione pensionistica.
Si tratta, peraltro, di una scelta sinergica con la lunga “metamorfosi”, tuttora in atto, che la fondazione ha subito per merito soprattutto della prassi statutaria, e che l’ha emancipata dal modello tradizionale dell’ente di mera “erogazione” costituito da un individuo per fini di utilità generale (Zoppini 1995, 13 ss.; Iorio 1997, 22 ss.), determinando la svalutazionedi alcuni caratteri tradizionali, ma da considerarsi non essenziali della fattispecie (Zoppini 1995, 76 ss.), quali il netto e assoluto distacco dell’ente dal fondatore, la posizione “servente” del consiglio di amministrazione, la prevalenza dell’elemento patrimoniale su quello organizzativo.
La fondazione ne è risultata riconfigurata nei termini essenziali di “destinazione di un patrimonio allo scopo attraverso la mediazione di una vicenda organizzativa assistita dal rilievo reale”; restando, tuttavia, chiara la differenza col mero patrimonio di scopo, da cui si distingue per l’elemento organizzativo e personale, e quindi per l’essenziale rilievo della personalità giuridica (Zoppini1995, 83, 238; Iorio1997, 23). Il vincolo di scopo, in positivo, e la mancanza di una struttura corporativa, in negativo, caratterizzano poi la fondazione rispetto all'associazione, e costituiscono il fondamento di quella limitazione dei poteri degli amministratori della fondazione e degli stessi fondatori, che nemmeno la richiamata “metamorfosi” dell’istituto ha potuto eliminare, se non nella misura della compatibilità con i caratteri essenziali della fattispecie: misura che va individuata nella stabilità e definitività della destinazione patrimoniale, e quindi nella indisponibilità oggettuale e temporale dello scopo (Zoppini1995, 105; Iorio1997, 23. Contra, Vittoria 1992, 1149).
13. L’evoluzione della figura della fondazione e i fondi pensione
Tuttavia, come accennato, all’interno delle coordinate appena tracciate si assiste da tempo in Italia alla forte valorizzazione del ruolo sia di soggetti che il modello tradizionale escludeva nettamente dalla gestione, quali il fondatore e i beneficiari, sia dell’organo amministrativo, che la tradizione considerava, sì, come titolare esclusivo della gestione, ma in chiave “servente”, ossia meramente esecutiva, rispetto alla volontà del fondatore consacrata nelle tavole fondative. È preliminarmente necessario, tuttavia, chiarire i termini soggettivi di questa evoluzione, con specifico riferimento ai fondi pensione: in particolare, è pregiudiziale l’individuazione dei soggetti fondatori.
13.1. Individuazione dei soggetti fondatori.
Quest’opera richiede, a sua volta, che vengano richiamate alcune elementari notazioni attinenti al rapporto e all’intreccio tra fonti istitutive e fonti costitutive dei fondi pensione.
Quanto alle prime, va ricordato che se esse non sono contratti collettivi ma semplici accordi plurilaterali (accordo tra lavoratori autonomi, liberi professionisti, lavoratori dipendenti in mancanza di contratti collettivi), si rende necessario l’intervento di soggetti collettivi in qualità di “promotori” della fonte istitutiva; quanto alle seconde, va rilevato che se il fondo è di natura fondazionale, si verifica una strutturale separazione tra la figura del fondatore (o dei fondatori) e quella dei beneficiari. Ne consegue che i fondatori devono rinvenirsi tra i soggetti collettivi che hanno stipulato (se trattasi di contratto collettivo) o promosso (se trattasi di “accordo” tra lavoratori) la fonte istitutiva, ovvero, deve ritenersi, il datore di lavoro che contribuisca al fondo aziendale: e ciò integra una differenza sostanziale rispetto ai fondi associativi, in cui parti negoziali sono gli individui beneficiari (oltre all'eventuale parte datoriale).
13.2. I fondatori e l’amministrazione della fondazione.
Chiarito chi possa considerarsi “fondatore”, e come si tratti di soggetti distinti dai beneficiari, resta da verificare quale possa essere il ruolo di tali soggetti nell’amministrazione del fondo pensione. In proposito, si deve constatare il pieno allineamento della disciplina speciale con la tendenza a rafforzare gli strumenti partecipativi, sia riconoscendo ai beneficiari un più ampio e penetrante potere d’azione a tutela dei propri interessi, sia prefigurando la diretta «partecipazione all’organo amministrativo (…) di rappresentanti dei destinatari e finanziatori dei servizi dell’ente diversi dal fondatore» (Preite 1993, 119); sicché oggi non pare lecito dubitare della possibilità che tanto i soggetti fondatori quanto quelli beneficiari possano amministrare l’ente o riservarsi la facoltà di nominare gli amministratori (Zoppini 1995, 148; Vittoria 1975, 309; Preite 1993, 119;contra, in passato, Cons.di Stato 1.6.1960).
Il legislatore dei fondi pensione si muove in questa direzione, quando esige la partecipazione pariteticadeilavoratori (beneficiari ed, eventualmente, finanziatori) e dei datori di lavoro (eventuali finanziatori) agli organi collegiali dei fondi pensione (art. 5 del decreto), con norma sicuramente applicabile anche alle fondazioni di previdenza complementare (e non invece, come s’è visto, ai fondi “interni” ex art. 2117,codice civile , in relazione ai quali si prevede solo l’istituzione di un «organismo di sorveglianza a composizione ripartita»).
Un problema di compatibilità – analogo a quello già delibato in ordine alle associazioni pensionistiche, ma reso più acuto dal fatto che i soggetti collettivi in questione sono parti stipulanti (e non meri promotori) della fonte costitutiva – si pone invece con riferimento alla partecipazione all’amministrazione del fondatore, quando questo sia, come di regola deve ipotizzarsi, un ente collettivo.La risposta negativa a tale quesito, che parrebbe dettata dal principio di partecipazione diretta degli interessati sancito dall’art. 5, potrebbe essere temperata solo in base ad una considerazione non meramente formalistica degli interessi in gioco e della ratio della norma: si potrebbe cioè ipotizzare (ma mancano riscontri sia operativi che normativo-regolamentari) una partecipazione dei fondatori all’amministrazione, purché il governo (e il controllo) dell’ente sia sostanzialmente nelle mani dei beneficiari e dei finanziatori.
Un altro profilo problematico che la disciplina delle fondazioni di previdenza complementare pone riguarda la sovrapposizione tra le figure del fondatore e del beneficiario, che apparentemente si verificherebbe nel caso dei fondi che prevedano il finanziamento a carico dei lavoratori. Si consideri, a tal proposito, che il negozio fondativo è, nel contempo, un atto di disposizione patrimoniale (atto di dotazione) attraverso cui il fondatore destina un patrimonio al conseguimento di uno scopo, e un atto di organizzazione che determina, attraverso una figura soggettiva organizzata, il modo di attuazione dello scopo (Galgano 1989, 1).
In questa prospettiva, la fonte istitutiva assurge a “regolamento convenzionale” che, «nel definire obblighi e pretese delle parti, svolge un ruolo accessorio allo statuto», atteggiandosi, «nella parte in cui determina l’obbligo di contribuzione (…) a contratto a favore di terzo di cui la fondazione è beneficiaria».
14. I poteri degli amministratori della fondazione previdenziale.
Quanto al ruolo non più meramente “servente” dell’organo amministrativo, poi, è comune nella prassi statutaria l’attribuzione agli amministratori di ampi poteri discrezionali in ordine agli investimenti patrimoniali ed all’erogazione delle rendite, ovvero a modifiche statutarie che non riguardino lo scopo dell’ente, o perfino alla trasformazione dell’ente quando il patrimonio sia esiguo, attraverso la limitazione del campo di attività o la fusione con una fondazione avente fini analoghi (Zoppini 1995, 222; Iorio 1997, 18 ss., 220 ss., 312 ss.). Naturalmente, varranno anche per tali amministratori i limiti connaturati alla fattispecie fondazionale, consistenti nella immodificabilità dello scopo, e nella definitività ed autonomia soggettiva (e quindi patrimoniale ed organizzativa) dell’ente: è solo a tale imprescindibile condizione, infatti, che può avallarsi la tendenza della prassi statutaria a trasformare da “servente” a “sovrana” la posizione dell’organo amministrativo della fondazione. Ne consegue, comunque, una minore ampiezza dei poteri degli amministratori della fondazione pensionistica rispetto a quelli degli amministratori (e dell’assemblea) del fondo pensione costituito in forma associativa(Baldari 1998, 25).
È escluso così – contrariamente a quanto precedentemente argomentato per i fondi associativi – qualsiasi potere di scioglimento autonomo, ossia per causali e in fattispecie che non siano necessitate e predeterminate dalla legge o dall’atto costitutivo: in pratica, si tratta delle ipotesi previste dall’art. 11 del decreto (le «vicende concernenti i soggetti tenuti alla contribuzione», la «liquidazione coatta amministrativa» del fondo; in generale, l’esaurimento o la sopravvenuta impossibilità dello scopo).
Quanto alle fondazioni che gestiscono le risorse attraverso il normale canale della convenzione con intermediari professionali, in tal caso la discrezionalità dell’organo amministrativo si esplicherà nella scelta del soggetto gestore, nella (co)determinazione del contenuto delle convenzioni (ivi compresa la formulazione degli indirizzi gestionali), nell’esercizio del diritto di recesso dalla convenzione medesima e dei diritti di voto inerenti ai valori mobiliari nei quali risultano investite le disponibilità del fondo pensione.
Vincoli evidentemente maggiori incontra l’organo amministrativo nella determinazione dei criteri di erogazione delle rendite e, in generale, nelle modifiche statutarie che, pur non toccando lo scopo dell’ente, investano i diritti dei beneficiari: nel caso dei fondi pensione, infatti, questo potere, che pure la prassi statutaria tende a riconoscere con larghezza, non incontra meri “interessi legittimi”, ma diritti soggettivi perfetti ed inviolabili quali quelli pensionistici, ovvero aspettative anch’esse intangibili dal fondo pensione (Zoppini 1995, 224. Per ulteriori notazioni, v. Tursi 2001, 384, nota 206), in quanto derivanti da disposizioni inderogabili della legge e della fonte istitutiva: sicché l’ambito decisionale degli amministratori potrà riguardare aspetti attinenti alle modalità di erogazione delle prestazioni, o alle modalità di esercizio dei diritti “strumentali” (e non di quelli “finali”) degli iscritti.
Per la stessa ragione, sarà di fatto inapplicabile alle fondazioni pensionistiche la disposizione di cui all’art. 26, codice civile, quanto meno nella parte in cui attribuisce all’autorità governativa (da intendersi come Ministero del lavoro) il potere di «disporre il coordinamento dell’attività di più fondazioni»: se è vero che il coordinamento di cui parla la norma codicistica consiste nella «modifica, in ciascuna fondazione, dei criteri e delle modalità di erogazione delle rendite», e quindi in una «nuova ripartizione della categoria dei beneficiari» o del «territorio dove gli enti operano» (Galgano 1969, 345), ne risulterebbe una sicura sovrapposizione non tanto con «la volontà del fondatore», quanto con le competenze delle fonti istitutive in materia di individuazione della categoria e dell’ambito dei destinatari.
Sono ritenute ammissibili, invece, le modifiche statutarie che – ferma restando l’intangibilità dei diritti e delle aspettative dei beneficiari fondate su norme inderogabili – siano coerenti con l’attuazione dello scopo: la dottrina civilistica fa riferimento alla «possibilità quando il patrimonio sia esuberante, di creare per scissione ulteriori fondazioni accessorie; ovvero alla possibilità di ampliare la gamma delle attività finalizzate al conseguimento dello scopo; o, al contrario, in caso di esiguità del patrimonio, alla limitazione del campo di attività della fondazione o alla fusione con una fondazione avente fini analoghi» (Zoppini 1995, 222).
Quanto alle ipotesi della scissione e della fusione, infine, e richiamando analoga riflessione svolta in relazione ai fondi pensione costituiti in forma associativa, v’è da precisare che esse, ove non espressamente “autorizzate” dalla fonte istitutiva (COVIP, Orientamenti interpretativi sui destinatari dei fondi preesistenti, 26.1.2001), possono ricorrere a fronte di ipotesi eterogenee, tra le quali si segnalano le vicende traslative dell'azienda (v. Tursi 2001, 448 ss., 463 ss.).
15. Il rilievo pratico della forma fondazionale in Italia.
Nel concludere questi rilievi in tema di fondazioni pensionistiche, non si può fare a meno di rilevare la pressoché totale inattuazione della previsione legislativa: a oggi, risulta istituita un’unica (nuova) forma pensionistica complementare in forma di fondazione (si tratta del “Fondo di previdenza complementare per il personale del Banco di Napoli”).La ragione di ciò va probabilmente individuata, da un lato, nella forbice, in cui tale figura organizzativa è stretta, tra la restrizione dei poteri degli amministratori e il rafforzamento dei poteri dei soggetti collettivi, che dovrebbe esserle connaturato; dall’altro, nella grave incertezza che pesa proprio sul ruolo effettivamente riconoscibile ai soggetti collettivi.
Certo è che, sulla carta, l’adozione dello schema fondativo per un fondo pensione in Italia, pur consentendo spazi di autonomia e operatività gestionale più ampi di quanto sarebbe immaginabile adottando quale riferimento il modello tradizionale della fondazione di mera erogazione (che costituisce pur sempre il modello visualizzato dal codice civile), comporta comunque l’assoggettamento al doppio limite della efficacia normativa della fonte istitutiva (comune all’associazione di previdenza complementare) e del vincolo di scopo (tipico, in quanto tale, della sola fondazione).
BIBLIOGRAFIA
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